
La natività del nuovo sole
Scrivere del Solstizio d’inverno, in celtico Yule, meriterebbe ampio spazio poiché esso è, tra le porte della Ruota dell’Anno, l’evento più miracoloso, maggiormente festeggiato e maggiormente carico di ritualità ancora oggi diffuse in tutto il globo.
In questo preciso momento della rivoluzione solare abbiamo, dal punto di vista astronomico, il momento in cui il Sole raggiunge nel suo moto apparente lungo l’eclittica il punto di massima declinazione negativa.
Ciò nell’emisfero boreale dà inizio alla stagione invernale.
Come conseguenza abbiamo la massima durata delle ore buie e quindi la minima durata delle ore di luce.
Le giornate cominciano già ad accorciarsi in modo visibile dal 13 dicembre, giorno dedicato non a caso a Santa Lucia: nonostante l’agiografia non faccia alcun cenno alla questione, ella viene simboleggiata con gli occhi su un piattino ad indicare il suo legame con la luce (Lux – Lucia), come ricorda anche la tradizione col proverbio: da Santa Lucia a Natale il dì s’allunga quanto un passo di cane.
La stagione buia era estremamente temuta nelle culture rurali: intanto bisogna tener conto della scarsità delle risorse alimentari disponibili in questo momento dell’anno. Senza i supermercati, con la terra gelata e fredda e le piante ritirate in se stesse per difendersi dal gelo non restano che cavoli, coste e le scorte fatte durante l’estate. Il buio stesso è motivo di timore.
Noi non siamo più abituati visto che l’inquinamento luminoso raggiunge anche le realtà periferiche, ma un tempo, quando l’elettricità non esisteva ancora (meno di un secolo fa, comunque) il buio era veramente buio.
Se la notte arrivava alle cinque del pomeriggio potete ben immaginare quale angoscia poteva generare negli uomini. Allora nascevano storie di spiriti, e fate, e strani esseri di natura o avi scontenti che ne combinavano qualcuna, storie narrate nelle calde stalle o vicino al fuoco.
Ultimo ma non ultimo è il freddo, pungente e forte, dovuto alla lontananza del sole dalla terra. In quel freddo ed in quelle notti nelle campagne nascevano davvero i bambini, dormivano, piccoli e grandi, in stanze con finestre che se avevano il vetro era sottile come carta velina. Al mattino, così mi raccontavano, c’era il gelo: ma dentro, non solo fuori. E così era, da millenni.
Come si può ben immaginare il ritorno della luce significava il ritorno alla speranza, al cibo, al calore, alla vita.
Giungere al Solstizio, superare la Candelora (2 febbraio) erano evidenti segni di poter sopravvivere anche quell’anno alla ciclica “morte”.
Non a caso innumerevoli nascite miracolose e divine vennero collocate in questa data, maschili e femminili, come bimbi sacri che con la loro venuta avrebbero rischiarato le tenebre.
Per farne un’interessante sintesi e a titolo di esempio, riporto quanto pubblicato sul sito Mednat:
- Dionisio o Bacco o Libero, dio del vino della gioia e delle orge di Grecia e Roma.
- Sol Invictus del Vicino Oriente e di Roma, Mithras di Roma, nato in una grotta (da una roccia), culto dei militari e quindi diffuso in tutti gli angoli dell’impero dalle legioni (diverso dal Mithra di Persia nato da una vergine morto e risorto, sembra dopo tre giorni, e diverso da Mitra indiano dio della luce e del giorno) poi, sempre nati insieme all’allungarsi delle ore di luce ci sono : Adone (o Adonis) di Siria, e forse anche il suo corrispondente di Frigia.
- Attys, nato da una vergine, morto a titolo di sacrificio, e che inoltre risorge il 25 Marzo in corrispondenza anche di data, oltre che di significato, col periodo della Pasqua.
- Atargatis di Siria, grande dea madre, dea della natura e sua rinascita, chiamata dai romani anche Derketo e dea Syria (la sua festa risulta al 25 Dicembre, quasi con certezza come data di nascita)
- Kybele (o Cibele) dea della Frigia amata da Adone (il 25 Dicembre era festeggiata insieme ad Adone: ma che tale data fosse considerata la nascita in questo caso non è certo, è solo presunto).
- Astarte (o Asteroth) della Fenicia, dea suprema, nonché dea della fecondità e dell’amore. Venerata anche dal re Salomone a Gerusalemme (la sua festa risulta al 25 Dicembre, quasi con certezza come data di nascita). Anche essa scese agli inferi e risorse.
- Il dio solare babilonese Shamash del Vicino Oriente.
- Il dio sumero Dumuzi (o Tammuz) la cui morte periodica rituale corrispondente a quella di Adonis era pianta anche alle donne ebree (Ezechiele VIII,14).
- Krishna, (attualmente il dio più importante dell’India) che inizialmente appare nel testo sacro Mahabarata come reincarnato dal dio padre Visnù come un uomo eroico o semidio, e poi si rivela come dio. Era venuto al mondo per riconquistarlo dai demoni. (Notate qualche parallelismo?). Infine Krisna muore ucciso (da una freccia, non sulla croce), ma rinascerà anche lui e come babbo natale porta doni nel cuore della notte.
- Joshua Ben Josef (Gesu’ il Nazireo/nazareno, Galileo, detto il Cristo e Salvatore)
- Baldur in Scandinavia.
- Freyr in Scandinavia.
- Bacab dio dei Maya dello Yucatan (attuali Guatemala e Messico Sud Est).
- Huitzilopochtli
- Quetzocatl entrambi del Messico centrale azteco.
La nascita del Dio o della Dea cadeva dopo i giorni bui del solstizio attorno al 21 dicembre. Dato il moto apparente del sole il buio pareva regnare per tre giorni circa: il 25 dunque la luce tornava – e torna – vittoriosa a trionfare e la consapevolezza condivisa indicava che il ciclo era rinnovato.
Nella nostra cultura il Natale indica la nascita di Gesù Bambino che, secondo la tradizione, avviene proprio questo terzo giorno dopo il solstizio, appena dopo la mezzanotte.
Come abbiamo visto la data era già usata sin dagli albori della civiltà. A Roma la festa del 25 dicembre fu introdotta ufficialmente da Aureliano nel 273 d.C. per festeggiare il Dies Natalis Solis Invicti, la festa dedicata alla nascita del Sole (Mitra) e solo nel III secolo fu sostituita dalla ricorrenza cristiana.
Ma il legame con l’antico mondo agricolo e pagano rimaneva con le festività dei Saturnalia, che dal 17 al 23 dicembre venivano allestite in onore di Saturnus, dio della semina e del grano.
Durante il primo giorno la cerimonia si svolgeva presso il tempio dedicato al dio con un sacrificio ed un banchetto. Dal 17 iniziava un periodo di vacanza: era il periodo più allegro dell’anno e nelle famiglie si scambiavano doni e biglietti di auguri, proprio come si usa ancora oggi.
Si facevano grandi banchetti, si rovesciava il rapporto tra schiavi e padroni e veniva permesso anche il gioco d’azzardo. Veniva eletto per scherzo un re: il princeps saturnalicius.
I Saturnalia si collocavano nel periodo di riposo dai lavori agricoli e probabilmente la festa induceva la comunità a riunirsi e quindi a condividere il rigore invernale irrorandolo della gioia e allegria tipica del mondo pagano.
La festa, dedicata a Saturno quale dio della fertilità, serviva anche ad augurare la fecondità della terra.
Nella corrispondenza greca Saturno era identificato con Crono, patrono della mitica età dell’oro: così i Saturnali celebravano anche il ricordo della mitica era primordiale in cui si riteneva che la proprietà delle terre e dei beni fosse comune e che non esistessero né il lavoro né i conflitti sociali né la guerra, età che ricorda gli studi di Marija Gimbutas – archeologa – sul culto della Dea presente nelle società umane dal tardo Paleolitico e lungo tutto il Neolitico e la cui ultima rappresentazione storica fu Creta.
Forse a ricordo del legame col femminile veniva festeggiata anche Opi o Ops, moglie di Saturno e dea del raccolto e dell’abbondanza. Alla sua protezione era affidato il grano mietuto e riposto nei granai e proprio durante i Saturnali si festeggiavano le Opalie il 19 dicembre, a lei dedicate.
L’altro momento dell’anno in cui Opi veniva onorata era il 25 agosto, nelle Opiconsivie. Questa data rappresenta un’altra porta dell’anno dedicata al raccolto: si festeggia infatti l’Assunzione di Maria Vergine ma anche il Grande Sabba del raccolto chiamato, secondo la tradizione celtica, Lammas o Lughnasad (1 – 15 agosto).
Opi viene raffigurata con una cornucopia, sebbene nella scultura del Bartolomeo la vediamo tenersi i seni, proprio come l’antica Inanna osava fare, in segno di fecondità.
Il periodo solstiziale dell’inverno, con i suoi riti legati ai doni scambiati in modo da propiziare la ricchezza a venire ed il ritorno alla luce, come abbiamo visto erano diffusi in vari paesi e possiamo affermare che il clima natalizio cominciasse già dal 6 dicembre, con le celebrazioni dedicate al santo dei doni: San Nicola le cui radici mitiche hanno portato al più moderno e consumistico Babbo Natale, ma il cui immaginario è strettamente legato con lo sciamanesimo e la guarigione, come racconta in questo articolo Diego Nicola Dentico.
Per quel che riguarda l’oggi, l’invito che posso fare per questa celebrazione tra le più importanti dell’anno, è quello di concentrarsi sul dono inteso come buon augurio di prosperità e salute per l’anno a venire, cercando però di non sprecare, di riciclare, di acquistare cose utili e di limitare la plastica anche negli addobbi.
Madre Terra ci dona quel che seminiamo, vediamo di seminare qualcosa di positivo.
Felice Nuova Luce.
©2008 – 2020 Testo e ricerca di Micaela Balìce
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L’ABETE
tratto da Calendario, Alfredo Cattabiani
Fin dall’antico Egitto l’abete fu considerato un albero della Natività, non meno antico della palma, perchè era la pianta sotto la quale era nato il dio di Biblos, il prototipo dell’Osiride predinastico egizio.
In Grecia l’abete bianco o elàte era sacro alla dea Artemide, cioè alla luna, protettrice delle nascite, in onore della quale, nelle feste dionisiache, se ne sventolava un ramo con una pigna sulla punta, intrecciato con un tralcio di edera.
Portava lo stesso nome dell’abete bianco Elàte, la dea della luna nuova, detta anche Kaineìdes, da kainìzo, rinnovare, recare cose nuove.
Un giorno, narra un mito, la ninfa Kaineìdes, figlia di Elato il Magnesio, o secondo altri mitografi di Corono il Lapita, fu posseduta da Poseidone che, soddisfatto, le chiese cosa desiderasse come dono d’amore: “Trasformami in un guerriero invincibile, sono stanca di essere donna”.
Kaineìdes divenne così il guerriero Kaineùs, che condusse più volte alla vittoria i Lapiti fino ad essere proclamato loro Re.
Inorgoglito da suo potere, Kaineùs piantò una lancia di abete nel mezzo della piazza del mercato costringendo tutti ad offrirgli sacrifici, quasi si fosse trattati di una divinità.
Zeus, sdegnato dalla sua presunzione, indusse i Centauri a ucciderlo.
Durante le nozze di Piritoo, essi assalirono il guerriero, che ne uccise facilmente cinque o sei senza riportare nemmeno un graffio, perché le armi degli assalitori scivolavano sulla sua invulnerabile pelle.
I Centauri superstiti cambiarono allora tattica e percossero Kaineùs sul capo con tronchi di abete fino a stenderlo a terra; poi lo ricoprirono con una catasta di altri tronchi soffocandolo. A quel punto un uccello grigio volò via dalla catasta.
L’indovino Mopso, che aveva assistito alla scena, disse di aver riconosciuto in quell’uccello l’anima di Kaineùs.
Al termine delle esequie si scoprì che il corpo del guerriero aveva riacquistato forme femminili.
Il mito adombra probabilmente un rito primaverile in onore della Grande Madre, che doveva consistere nell’innalzamento di un abete nella piazza del mercato e in una cerimonia rituale in cui uomini nudi, armati di magli, percuotevano sul capo un’effige della Madre Terra per liberare lo spirito dell’anno nuovo.
L’abete, insieme con la betulla, viene considerato fra le popolazioni dell’Asia settentrionale un albero cosmico che si erge al centro dell’universo.
Secondo gli altaici, sull’ombelico della terra spunta l’albero più alto, un gigantesco abete i cui rami si innalzano fino alla dimora di Bai-Ulgän, la divinità protettrice, collegando le tre zone del cosmo: cielo, terra e inferi.
Secondo gli Ostìachi-Vasjugan la sua cima penetra nel cielo mentre le radici affondano negli inferi.
I Tatari sostengono che una coppia dell’Albero celeste si trova nell’inferno: un abete con nove radici si erge davanti al palazzo di Irle Khan, il re dei morti (…).
Nel calendario celtico l’abete era consacrato al giorno della nascita del Fanciullo divino: giorno supplementare che seguiva il solstizio d’inverno.
Il legame fra l’albero e il solstizio è documentato anche nei paesi scandinavi e germanici, nei quali, nel Medioevo, poco prima delle feste solstiziali ci si recava nel bosco a tagliare un abete che, portato a casa, si decorava con ghirlande, uova dipinte e dolciumi. Intorno all’albero si trascorreva la notte allegramente (…)
(tratto da: Calendario, Alfredo Cattabiani, pag 72 e seg.).
Cattabiani ricorda ancora che nei paesi latini l’albero di Natale ritorna come usanza solo nel 1840 quando la principessa Elena di Mecklenburg lo introdusse alle Tuileries suscitando la sorpresa della corte (ndr).
CIOCCO E PRATICHE DIVINATORIE
tratto da Calendario, Alfredo Cattabiani
Accanto all’abete era viva in tutta l’Europa fino a qualche decennio fa un’usanza che ora sopravvive in poche famiglie e in aree limitate: il ciocco natalizio, detto in tedesco jul e in francese calendau o chalendel con un evidente riferimento all’inizio dell’anno, ovvero al periodo solstiziale.
In Italia è chiamato in vari modi secondo le regioni: süc in Piemonte, zoch nel trevigiano e ceppo o ciocco nell’Italia centrale.
Nella Val di Chiana, in provincia d’Arezzo, la sera della vigilia di Natale ogni famiglia si riuniva mettendo nel camino un ciocco di quercia e dicendo: «Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa; le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondino il grano e la farina, e si riempia la conca di vino».
Poi si bendavano i bambini che dovevano avvicinarsi al camino e battere con le molle sul ceppo recitando una canzoncina detta Ave Maria del Ceppo che aveva la virtù di far piovere su di loro dolci e regalini.
Sul ceppo si sistemava altra legna che bruciava più facilmente sicché esso si faceva consumare ogni sera durante i dodici giorni natalizi fino all’Epifania.
Questa antichissima usanza, diffusa in tutto il continente europeo, venne interpretata nel primo Medioevo in senso cristiano: il süc – come si diceva ancora all’inizio del secolo scorso nelle campagne piemontesi – era il simbolo del Cristo che si era sacrificato per salvare l’umanità, per sostenere l’uomo nel suo viaggio terreno.
Il ceppo doveva bruciare un poco ogni sera per dodici giorni, simboli dei dodici mesi dell’anno: era analogo dunque al sole che, nato al solstizio d’inverno, avrebbe nutrito la terra per un anno intero.
Per questo motivo si diceva: «Domani è il giorno del pane» e si mangiavano nel periodo natalizio, come oggi d’altronde, dolci a base di farina, fra i quali il più celebre in Italia è il panettone milanese.
L’usanza è diffusa in tutta Europa: in Francia, per esempio, si usa cuocere nelle campagne il cosiddetto pain de Calandre.
Poi se ne taglia nella parte superiore un pezzetto sul quale vengono incise tre o quattro croci: è un talismano, dicono i contadini dell’Alvernia, capace di guarire da molti mali. Il resto del pain de Calandre viene mangiato da tutta la famiglia.
In Inghilterra i fornai regalavano ai clienti una focaccia beneaugurale, detta Christmas-batch, non diversamente da quelli lombardi che, prima della pancommercializzazione moderna, offrivano il panettone a Natale. (…)
Il ceppo era il simbolo del dio che governava il destino del cosmo: nella religione ittita il primo dio, Alalu, personificazione del destino, significava ciocco.
«Nelle usanze del Natale» scrive Margarethe Riemschneider «questo significativo coccio si è mantenuto, e sarebbe strano il contrario (…) Il ciocco vale come amuleto protettivo per tutto l’anno seguente. Nel periodo natalizio non deve mai spegnersi nè consumarsi del tutto giacché ciò che ne resta garantisce protezione e benedizione e il nuovo ciocco va acceso con un pezzo dell’antico.
E’ sacro non il focolare in se stesso, non il fuoco, che offre all’uomo (sopratutto nel Nord) l’auspicata luce e il sospirato calore, ma il ciocco, collegato per la sua forma all’immagine del fallo e alla fertilità, e quindi all’idea di fortuna».
(tratto da: Calendario, Alfredo Cattabiani, pag 78 e seg.)
E per concludere riporto la preghiera detta Ave Maria del Ceppo così come la riporta Carlo Lapucci:
Ave Maria del Ceppo,
Angelo benedetto!
L’Angelo mi rispose
Ceppo mio bello,
portami tante cose!
Buona Nuova Luce.
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